L’acquitrino
- Liceo Rocci
- 25 mar 2021
- Tempo di lettura: 5 min
Tratto dal Numero 3 del Vox Rocci, uscito in data 25 marzo 2021
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Ricordo con inquietante dovizia di dettagli quella notte.
Un medico alto, ossuto, con gli zigomi violacei, ben pronunciati e un ampio paio di spesse lenti poggiate sul naso, era venuto a visitare Gilda. La aveva raggiunta nella sua camera da letto appena arrivato. Dopo aver rivolto un cenno di saluto a papà s’era chiuso la porta alle spalle ed era rimasto dentro per quasi una mezz’ora, scandita, secondo per secondo, dal ripetitivo ticchettio della sveglia sulla credenza in salotto.
Appena uscito, la sua espressione era impassibile e non lasciava trasparire alcuna emozione. Con passo lento si era avvicinato al pomposo divano di stoffa rossa, posizionato al centro della stanza, dove mio padre sedeva immobile.
«Sta morendo.» Aveva detto. Una sola frase, secca, asciutta.
«Sta morendo», avevo ripetuto in un impercettibile bisbiglio, quasi avessi bisogno di pronunciare io stesso quelle parole, per comprenderne fino in fondo il significato.
Gilda era una ragazza sempre gioiosa e solare, dai capelli lunghi, scuri e dagli occhi profondi, che di lì a poche ore, vitrei e spenti, sarebbero rimasti chiusi dietro due fredde palpebre, nell’attesa d’esser mangiati dall’orrenda corruzione della morte.
Eravamo andati a fare una gita in campagna, un po’ lontani dalla casa cittadina, tutti contenti e desiderosi di stare un po’ all’aria aperta assieme a papà. L’ambiente, evidentemente malarico, le aveva attaccato il morbo mortale ed ella, pochi giorni dopo, aveva iniziato a tossire, dare di stomaco, sudare eccessivamente e, addirittura, delirare a causa della febbre. «Le dia un po’ d’acqua, se ha la forza per chiederla». Le parole del medico mi avevano riportato alla realtà.
«E che altro?» aveva chiesto mio padre, con voce tremante.
«Nulla, il Signore penserà al resto».
S’era quindi congedato, senza un buon augurio, o anche solo una parola, un cenno di commiato.
Papà, con le lacrime agli occhi, era entrato in camera di Gilda e si era seduto vicino al letto, guardando il viso della bella figliuola addormentata. Io, bambino com’ero, l’avevo seguito e mi ero messo a sedere sulla parte libera del materasso, abbastanza ampio da contenere due persone. Il petto della mia cara sorella si muoveva su e giù ad ogni respiro e stetti a fissarne il ritmo per qualche minuto, o forse ora, non ricordo. Fatto sta che, quando si fermò, dalle persiane filtravano le prime luci dell’alba.
Non aveva prodotto alcun suono, poveretta: non un ultimo augurio, una carezza o una buona parola.
Il respiro le si era troncato. Così. Senza alcun preavviso. Ed ella, priva di vita, era rimasta leggera leggera sul letto di morte.
Aveva gli occhi aperti, spenti come un cero sotto la pioggia, forse dischiusi nell’ultima, vana volontà di vedere coloro che tanto la avevano amata.
Papà si era alzato e, lacrimando, le aveva chiuso le palpebre con le rugose dita.
Della giornata che venne ricordo poco: uomini in abiti scuri che portavano grosse corone di fiori, due donne anziane, addette alla vestizione della defunta che entravano e uscivano senza alcun ritegno dalla stanza di Gilda, come dal camerino di un’attrice, e mio padre, in uno stato catatonico, seduto immobile sul pomposo divano di stoffa rossa.
Arrivò la tanto attesa sera, solo la notte ci separava dall’ultimo, disperato saluto alla mia cara sorella.
Io e papà c’eravamo messi in cucina, a mangiar quel poco che il dolore ci consentiva di trangugiare e, dopo ore ed ore di inquietante silenzio, mio padre aveva detto: «Domani mattina la porteranno via presto, per metterla nella bara. Se hai da dirle qualcosa, fallo prima di andare a dormire.»
Senza farmelo ripetere mi ero alzato dalla vecchia sedia di vimini e mi ero diretto verso la camera.
Gilda era lì, immobile, come una bambola. Sulla pelle pareva le avessero messo un ampio strato di cipria che, a dir la verità, a lei non era mai piaciuta. Un vestito di un rosa chiaro, probabilmente di lino, le cingeva tutto il corpo e un coprispalle di lana nera, quasi che temessero potesse sentir freddo, le era stato posto sulle spalle. «Addio. Addio cara sorella. Mi mancherai.» Nient’altro m’era venuto da dire in quel momento e con gli occhi bagnati di pianto avevo iniziato a singhiozzare, chino vicino al freddo letto.
«Dovresti mangiare qualcosa.» Una voce calda e familiare mi si era rivolta inaspettatamente. Spaventatissimo, avevo alzato il capo, riconoscendo in quelle parole, il consueto timbro di Gilda. Eppure, ella era ancora lì, immobile, come l’avevano lasciata le due anziane signore. Pensai d’aver avuto un’allucinazione, motivata dalla stanchezza e dalla tensione accumulata durante la giornata.
Profondamente spaventato, ero corso in cucina, a cercare un po’ di conforto dal mio povero padre. Entrato nella stanza la avevo vista. Seduta. Sulla sedia che poco prima avevo occupato io, con una tazzina di caffè in mano, intenta a conversare con papà, come se nulla fosse mai stato.
«Mi domando cosa se ne faccia una morta di un coprispalle così bello. Era della mamma, giusto?» aveva chiesto Gilda a mio padre. E lui, con la più insospettabile naturalezza, aveva risposto: «Glielo aveva cucito a mano tua nonna, come regalo per un compleanno di tanti anni fa.»
«E lo vuoi abbandonare così, papà, a muffa e disgustosi insetti corruttori?» aveva ribattuto Gilda, in tono quasi arrabbiato.
In preda al delirio più totale ero corso nuovamente in camera, per cercare di capire cosa stesse succedendo. Gilda era lì, immobile, come la avevo lasciata. Il coprispalle, anch’esso, al suo posto.
Mosso da nuova, terribile ansia, mi ero girato ancora ed ero andato in cucina.
Lei era sempre lì. Il vestito rosa, il coprispalle scuro e la faccia sbiancata più dalla cipria che dalla morte.
«Tu sei... tu sei... morta!» le avevo detto interrompendo la sua conversazione con papà. Ella, al sentire queste parole, aveva cambiato espressione e s’era fatta seria, mentre mio padre, che fino a quel momento mi aveva mostrato le spalle, girava in quel momento il busto. I suoi occhi erano pieni di lacrime e, come se fossi stato lontano, immerso in un liquido capace di attutire il suono, avevo sentito pronunciare queste parole: «Stai morendo».
Gridando, impazzito, in preda ad un’ansia, ad un calore fortissimo e nel tentativo di reprimere un conato, ero corso fuori dalla stanza, avevo aperto la porta di casa per dirigermi giù dalle scale del palazzo e, come preso da una furia incontrollabile, mi ero lanciato addosso alla porta a vetri, che separava il condominio dell’esterno.
Ed ecco il buio. Brividi. Nausea. Una strana sensazione di stordimento.
Aprii gli occhi, nell’ultimo tentativo di vedere quelli che m’avevano tanto amato. Papà era accanto al letto e Gilda, con il suo bel coprispalle nero, sedeva a gambe incrociate accanto a me.
Maledetto sia il giorno in cui m’allontanai dal mio sfortunato padre, per avvicinarmi a quell’acquitrino, che in morte mutò la mia curiosità.

Racconto di
Lavinia Pennacchini, 5AS
Illustrazione di
Ettore Matteucci, 5AS
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